Donzelli
Dante e il mare
Donato Pirovano
Libro: Libro in brossura
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 208
Nel viaggio oltremondano raccontato nella Commedia, Dante rasenta una volta sola il mare: sono le acque oceaniche che bagnano l’isola del purgatorio nell’emisfero australe, che il poeta vede dopo essere uscito dall’inferno. In quelle stesse acque, all’inizio della creazione è precipitato Lucifero, e lì è naufragata la nave di Ulisse, dopo che l’eroe greco aveva convinto i suoi compagni a lanciarsi oltre le Colonne d’Ercole. Il Mar Mediterraneo è invece presente nei racconti di personaggi incontrati lungo il cammino, da Francesca a Folchetto di Marsiglia, da Pier da Medicina a Sapia. Il mare nostrum si intravede anche nei miti che interagiscono con la poesia dantesca: Glauco, la Sirena, Ero e Leandro, gli Argonauti. Tuttavia, è nel tessuto metaforico che il mare fa sentire maggiormente il rumore dei suoi flutti, a partire dalla similitudine con cui si apre il poema, quella di un naufrago che scruta le acque alle quali è sopravvissuto, fino all’immagine del canto finale del Paradiso, in cui Nettuno guarda meravigliato l’ombra di Argo, la prima nave che ha solcato il suo regno. C’è poi una metafora antica che Dante rende sua e rinnova, quella della poesia come navigazione, che apre mirabilmente le ultime due cantiche e innerva l’intera struttura del poema. Quello del mare è un tema ricorrente nella Commedia, ma è presente in quasi tutte le opere di Dante; dato curioso, visto che molto probabilmente egli non ebbe mai occasione di solcarlo. Si tratta di un argomento sterminato, ricco di sfaccettature, oltre che di implicazioni letterarie e filosofiche, spesso toccato dalla critica, ma fino a oggi mai affrontato compiutamente in una monografia. Il libro di Pirovano colma questa lacuna offrendo un’analisi completa della presenza del mare, fisico e metaforico, nel corpus dantesco.
Le parole hanno una storia. Apartheid, colonialismo, crimini di guerra, genocidio, pogrom, sionismo
Marcello Flores
Libro: Libro in brossura
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 144
«La cultura dei diritti umani ha bisogno, in questa fase storica, di fare un salto di qualità analogo a quello che è avvenuto dopo il 1945, per uscire da un tunnel di violenza che sembra inarrestabile. La corretta definizione delle parole è uno degli strumenti fondamentali di analisi e confronto, di formazione e acquisizione del sapere e, in ultima istanza, di tutela della democrazia e della convivenza civile». Quando pronunciamo parole come apartheid, colonialismo, crimini di guerra, genocidio, pogrom, sionismo, sappiamo esattamente a cosa ci riferiamo? Ne comprendiamo appieno il significato, la storia, le implicazioni? Le parole non sono solo uno strumento per comunicare, ma innanzitutto una classificazione e una riorganizzazione dell’esperienza sensibile, in relazione a conoscenze, competenze, valori. Questo è vero ancora di più quando ci inoltriamo nella sfera dei diritti umani, cui ci riconduce il piccolo vocabolario selezionato per questo volume da Marcello Flores. È bene entrare in questo ambito con cautela, senza approssimazioni né banalizzazioni, maneggiando con cura concetti che hanno alle spalle una storia ben precisa. La Dichiarazione universale dei diritti umani, la Convenzione sul genocidio, le quattro Convenzioni di Ginevra sulla protezione dei feriti, sui prigionieri di guerra, sulla protezione dei civili e delle donne sono alcuni dei testi fondamentali che, elaborati dopo la fine della seconda guerra mondiale, diventano punti di riferimento per la società civile e democratica. Una rivoluzione, nata dalla convinzione che occorre limitare il ruolo degli Stati, legandoli a valori che appartengono all’umanità, che vanno oltre le differenze storiche, culturali, religiose e politiche. Ma che ne è oggi dei diritti umani? Quali misure sono prese per prevenire o interrompere possibili genocidi? A cosa si deve la ripresa del razzismo e dell’antisemitismo, perfino in Europa? Non è facile essere ottimisti, ma è proprio in una situazione di questo tipo che il ruolo dell’opinione pubblica e delle organizzazioni non governative diventa fondamentale per una nuova offensiva della cultura dei diritti umani, ormai diventata puro discorso retorico. È in quest’ottica che si rivela cruciale recuperare la solidità e la concretezza di parole e concetti chiave. L’obiettivo di questo lavoro è consentire un confronto di idee lucido, impedire paragoni discutibili, favorire giudizi meno arbitrari: le parole hanno una storia, e solo se adoperate con questa consapevolezza si fanno vero motore di cambiamento, lo strumento più prezioso e potente anche per fare la storia.
Politica e martirio. Il rogo di Primavalle tra storia e memoria
Amy King
Libro: Libro in brossura
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 288
Il 16 aprile 1973, nella borgata di Primavalle, zona nord-ovest della capitale, intorno alle 3 di notte, qualcuno versa una tanica di benzina davanti alla porta di un appartamento. È l’abitazione della famiglia Mattei: il padre, Mario, è segretario della sede locale del Movimento sociale italiano. Nell’incendio moriranno due dei sei figli: Virgilio, di 22 anni, e Stefano, di 10. Gli autori dell’attentato sono tre ragazzi di Potere operaio; saranno dichiarati colpevoli solo nel 1987, ma di fatto non pagheranno mai. La tragedia – cui seguirono depistaggi e mistificazioni – viene ricostruita in queste pagine da una studiosa inglese, che con il vantaggio della «distanza» illumina la vicenda e per la prima volta ne chiarisce le distorsioni, intrecciando il racconto storico e la documentazione giudiziaria, le reazioni della stampa e le testimonianze di uno dei figli sopravvissuti e della gente del quartiere. Il «rogo di Primavalle» si delinea così come un punto di svolta nella storia della violenza politica in Italia: per la sinistra, che fino a quel momento se ne era considerata immune, significò la fine dell’innocenza; per il partito di Giorgio Almirante, nell’occhio del ciclone per una sequela di azioni terroristiche ad opera degli estremisti, significò la possibilità di un riscatto. L’attentato favorì infatti la costruzione di una retorica intessuta di sacrificio e martirio, alimentata sia dall’esito del primo processo sia dalla campagna contro il Msi portata avanti dai media, autori di una manipolazione della memoria giunta fino ai nostri giorni. Ed è propriamente una riflessione sull’uso della memoria questo libro «duro e necessario», come lo definisce Alessandro Portelli: oltre a decostruire il modo in cui i fascisti e la destra ricordano, costringe gli antifascisti, gli eredi della nuova sinistra e non solo, a fare i conti con un’altra pietra d’inciampo, con una memoria sgradita, che disturba ancora oggi.
Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico
Paolo Maddalena
Libro: Libro in brossura
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 208
«Si è radicato nella mente di tutti che il proprietario è assoluto padrone dei suoi beni, non tenendo conto del fatto che il fenomeno dell’edificazione produce effetti non solo sui beni in proprietà del privato, ma anche sui beni che sono in proprietà collettiva di tutti, come il paesaggio, che, essendo un aspetto del territorio, è in proprietà collettiva del popolo, a titolo di sovranità». Passione civile e competenza giuridica si fondono in questo densissimo contributo alla riflessione sui beni comuni. Con rigore e lucidità, non perdendo mai di vista l’obiettivo di dare al suo lavoro massima concretezza, Paolo Maddalena, uno dei più importanti giuristi italiani, pone il problema nel quadro sconcertante dell’attuale crisi, mettendo in luce come crisi ambientale e crisi finanziaria abbiano una causa comune: la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Come già diceva Roosevelt in una relazione al Congresso degli Stati Uniti nel 1938: «la libertà di una democrazia non è salda se il popolo tollera la crescita di un potere privato al punto che esso diventa più forte dello stesso Stato democratico». Di qui l’importanza di distinguere la proprietà comune o collettiva, che ha il suo fondamento nella «sovranità», dalla proprietà privata, che ha il suo fondamento nella «legge», ristabilendo un equilibrio che negli ultimi decenni di storia italiana è stato tutto sbilanciato a favore della proprietà privata. L’autore rileva con forza la precedenza storica della proprietà collettiva del territorio da parte dell’intero popolo sulla proprietà dei privati e la prevalenza giuridica della prima sulla seconda, sancita dalla stessa Costituzione. Si tratta di due dati che consentono un capovolgimento della tradizionale concezione borghese, rafforzata dal pensiero unico dominante del neoliberismo economico, secondo cui l’interesse pubblico costituisce un limite alla proprietà privata, là dove è la cessione a privati di parti del territorio, oggetto di proprietà collettiva, che limita la proprietà collettiva medesima. Una tale inversione di prospettiva è, secondo l’autore, imprescindibile se si mette in atto una lettura non preconcetta della Costituzione rispetto al tema della funzione sociale della proprietà, dei limiti all’iniziativa economica privata e dell’intervento pubblico nell’economia. «Pochi intendono – sottolinea Salvatore Settis nella sua Introduzione – che solo il rigoroso fondamento sul disegno di società voluto dalla Costituzione e il puntuale radicarsi nel nostro ordinamento possono far uscire le tematiche dei beni comuni dal limbo dell’utopia, e farne invece il manifesto di una politica dei cittadini non solo auspicabile, ma possibile». Un pamphlet appassionato e rigoroso che, a dieci anni dalla prima edizione, nulla ha perso della sua attualità e della sua urgenza e che esorta a dare inizio a un autentico rinnovamento economico, sociale e politico.
Sant'Anna di Stazzema. Memorie di guerra, culture di pace
Caterina Di Pasquale
Libro: Libro in brossura
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 224
La mattina del 12 agosto 1944, un battaglione delle SS, con il supporto di elementi repubblichini, accerchia il borgo di Sant’Anna di Stazzema e massacra gli abitanti, in una delle più atroci stragi nazifasciste compiute in Italia. La memoria di questo eccidio rappresenta, per il nostro paese, una vicenda emblematica. Il libro di Caterina Di Pasquale ne ripercorre in chiave antropologica le tappe fondamentali, a partire dal processo di rimozione strutturale che lo caratterizzò a lungo, agevolato dal ritardo dell’iter giudiziario, finché nel 1994 non vennero ritrovati 695 fascicoli sulla strage, «archiviati» a palazzo Cesi, sede degli Uffici della magistratura militare. In questa ricostruzione si intrecciano la dimensione privata e quella pubblica, le istanze nazionali e quelle locali, la storia ufficiale e quelle individuali. A prendere la parola sono le persone scampate allo sterminio, i loro familiari. Da quel 12 agosto chi è sopravvissuto non ha fatto altro che raccontare: parlando del proprio mondo distrutto ne ha celebrato il ricordo; evocando le vittime e pronunciandone i nomi le ha onorate e ha dato un senso alla vita di chi se ne è andato e di chi è rimasto. I più giovani hanno incorporato questa narrazione e l’hanno fatta propria integrandola, passando il testimone alle nuove generazioni. In questo percorso la memoria risulta attraversata da contrasti e contraddizioni, in un’ambivalenza tra dicibile e indicibile, tra pace e conflitto: tensioni vitali e da preservare, se si vuole evitare una memoria comunitaria edulcorata e normalizzata, priva del suo potere contrastivo e critico, di quella forza che permette di restare vigili sul presente e sul futuro.
Il femminile e il sacro
Julia Kristeva, Catherine Clément
Libro: Libro in brossura
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 304
Esiste un sacro specificamente femminile? È l’interrogativo da cui prende le mosse un intenso confronto tra due scrittrici, due amiche, intellettuali e atee: Julia Kristeva e Catherine Clément. Tra aneddoti personali e connessioni inaspettate – dalle vacche sacre dell’India alla figura della Vergine, dall’impurità delle mestruazioni all’anoressia e al sacrificio, da Freud a Socrate passando per Lady Diana e santa Teresa d’Ávila –, Clément e Kristeva intessono un dialogo sul senso più profondo dell’essere femminile e del sacro, al crocevia tra natura e cultura, pulsione e linguaggio, corpo e pensiero. Le loro riflessioni, nella forma dello scambio epistolare, sono viaggi nello spazio e nel tempo che esplorano in modo appassionato territori solitamente lasciati al loro mistero. Mettendo in relazione miti, rituali e credenze dell’induismo, del buddhismo, dell’animismo africano e dell’ebraismo, Catherine Clément racconta le scene sorprendenti di un sacro che ha visto con i propri occhi e che è scritto sul corpo e nell’anima. Julia Kristeva, invece, attraverso le storie di alcune sue pazienti psicanalitiche e i temi della maternità, dell’amore e della mistica cristiana, rivela la misura – e l’eccesso – femminile dell’esperienza interiore. Un tema, quello del femminile e del sacro, che risale alle origini stesse dell’umano ma che interessa il presente: le due autrici ricordano infatti le diverse forme di barbarie di cui ancora oggi sono vittime molte donne nel mondo, a ogni latitudine. Di fronte al pericolo, però, le donne in questo terzo millennio si risveglieranno. E questo libro diventa, così, l’affresco esaltante del risveglio femminile, tra eternità e modernità.
La memoria dimezzata. I campi fascisti nelle testimonianze slovene
Marta Verginella, Oto Luthar, Urška Strle
Libro
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 320
Molti campi di internamento fascisti furono caratterizzati da condizioni brutali, paragonabili a quelle dei campi nazisti; non pochi erano riservati alla popolazione slovena. È questa una delle pagine più buie della politica coloniale e bellica del regime: una storia rimossa, trascurata anche dalla storiografia italiana, così come da quella slovena. Tra il luglio e il novembre del 1942 fu portata avanti una grande offensiva nei territori sloveni, prima con il massacro della popolazione civile e poi con la deportazione di circa 30000 persone. Intere famiglie furono imprigionate nei campi fascisti, dove vennero sottoposte a un trattamento durissimo. Per la maggior parte si trattava di sloveni ribelli, ma anche di amici e familiari – bambini compresi – dei partigiani: contro di loro l’azione degli italiani, che si prefiggevano di fascistizzare l’area occupata, fu crudele e sistematica. In ciò il regime proseguiva una strada già sperimentata nei campi di internamento africani, gravata tuttavia da un atteggiamento del tutto particolare – di affinità e insieme diffidenza, di superbia e insieme di timore – mostrato tradizionalmente nei confronti della popolazione slovena. Attraverso un accurato e minuzioso lavoro di storia orale, gli autori del volume danno voce a coloro che sulla propria pelle subirono la deportazione: sono loro – all’epoca per lo più bambini – a raccontare, portando alla luce vicende di sofferenza e di violenza, ma anche episodi di solidarietà. Intrecciando le testimonianze con la ricostruzione del contesto europeo, si compone il quadro storico generale e si indagano le ragioni per le quali questo trauma collettivo per troppo tempo ha faticato – e tuttora fatica – a emergere e a essere presente in tutta la sua complessità nella memoria comune slovena e in quella italiana.
Rigenerazione urbana e territoriale. Un sussidiario
Libro: Libro in brossura
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 256
C’è un’evidente continuità tra il volume che qui si presenta nella collana dei «Saggi» e la fortunata edizione delle «Saggine» che è stata proposta nel 2022 all’attenzione dei lettori sotto l’insegna di "Rigenerazione urbana. Un glossario". Ci sono anche importanti segnali di novità, in un mondo e in un tempo che fanno dell’innovazione la propria insegna. La nuova edizione, facendo tesoro dell’esperienza, si propone con una diversa articolazione e anche con qualche maggiore ambizione. Ne è evidente testimonianza la trasformazione del titolo, che ha voluto esplicitare, accanto a quella «urbana», la dimensione «territoriale» della rigenerazione, e che, per qualificare la sua natura, è passata dalla figura icastica e un po’ erudita del glossario a quella più umile e colloquiale del sussidiario. Sussidiario, per il dizionario Treccani, è un aggettivo con il quale denotiamo ciò «che serve di sussidio, di aiuto; che costituisce un mezzo complementare e integrativo per qualcos’altro»; più specificamente è «manuale, libro: il sussidiario, testo che nelle scuole elementari integra il libro di lettura e l’insegnamento del maestro nelle varie materie di studio». Diventando sussidiario, il glossario accetta innanzitutto la metafora che interpreta la rigenerazione urbana e territoriale essenzialmente come un processo educativo nel quale si rivolgono suggerimenti e suggestioni piuttosto che ordini e direttive. Sussidiario come deposito di consapevolezze che aspirano a diventare riferimenti e «linee guida» per l’elaborazione laboratoriale che ogni singolo percorso di rigenerazione si darà, nei tempi e nei modi che qualificano la propria diversità come originale ricombinazione di significati ed elementi che, in diversi contesti, hanno già avuto altra veste e altre vite.
L'aula e la piazza. Dialogo sull'architettura, l'università e la società
Alessandro Armando, Carlo Olmo
Libro: Libro in brossura
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 184
«Maestro, discepolo e piazza si intrecciano in un dialogo che, a partire dalle contraddizioni della contemporaneità, ha condizionato il nostro pensiero su spazio e democrazia, influenzando l’architettura e l’università fino a oggi». L’architettura è costantemente chiamata a confrontarsi con le proprie radici e tradizioni, riscoprendo attraverso il dialogo le contraddizioni che la attraversano. Il rapporto tra pratica progettuale e storia, purtroppo, sembra oggi quasi interrotto, sebbene continui ad alimentarsi di un confronto difficile, ma necessario, tra prospettive disciplinari e generazionali diverse. In questo dialogo si tenta di affrontare le difficoltà che investono l’architettura, intesa come uno spettro che comprende ricerca, insegnamento e pratiche: un campo che non cessa di porre domande fondamentali sul nostro vivere insieme, sulla nostra capacità di pensare e progettare le città, ma anche di abitarle. Non basta una semplice riscrittura delle regole: è necessario mettere in discussione i presupposti che reggono i discorsi correnti sull’insegnamento e lo studio dell’architettura e sulla loro capacità di incidere sulla realtà. Le università, per esempio, sono diventate luoghi di riproduzione piuttosto che di elaborazione del sapere. Il docente, sempre più incapsulato in un sistema di valutazione impersonale, si trova a destreggiarsi tra l’obbligo di costruire curriculum e pubblicazioni scientifiche e il vuoto di una comunità che non riesce più a dialogare al suo interno. L’internazionalizzazione, che avrebbe dovuto ampliare gli orizzonti della disciplina, è spesso ridotta a un meccanismo che promuove la globalizzazione dei saperi senza favorire una vera comprensione tra le diversità. Non si tratta solo di riflettere su come restituire valore e orizzonti alle pratiche universitarie e professionali, ma di ritrovare spazi per un dialogo che vada oltre il semplice scambio accademico. Il confronto tra saperi, idee e tradizioni deve essere il cuore di un’architettura che non voglia ridursi a mera prestazione di servizio e riscopra la propria forza politica ed etica. Il percorso di riflessione proposto, portato avanti da due protagonisti di età e formazione diverse, è un invito a sfidare l’apparente inevitabilità del presente senza cedere al pessimismo. Si tratta di trovare una comprensione condivisa del nostro mondo e della nostra architettura, per restituire alle sue discipline la capacità di essere, ancora, un luogo di cambiamento.
Montagne a bassa definizione. Gli Appennini tra crisi di identità e cambiamento
Libro: Libro in brossura
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 184
Ripensare la dorsale appenninica in favore di nuovi modi di intendere e praticare, dunque abitare, le varie sfaccettature di una irriducibile montanità. La dorsale appenninica è la catena orografica più grande del paese, con un’estensione superiore all’Ungheria, al Portogallo o all’Austria. Nonostante la sua ingombrante presenza, per i più rimane un rilievo minore, perennemente in bilico tra il «non-ancora Alpi» e la montagna di serie B. La bassa altitudine, le cime «arrotondate», la frammentazione in valli e altipiani, la relativa facilità d’accesso e i morbidi versanti boscosi l’allontanano dall’idea universale di montagna, tradizionalmente identificata nella cultura occidentale con la catena alpina. Ciò accade perché gli Appennini, prima di essere una regione geografica, sono luoghi della mente, sui quali proiettiamo qualità e caratteristiche maturate all’interno della cultura collettiva. Se da una prospettiva realistica gli Appennini esistono indipendentemente dalla percezione umana, come rilievi orografici, tutt’altra storia è se li esaminassimo a partire dalla costruzione culturale che ne ha fatto la società, chi li vive, li studia, li racconta e li progetta. L’appenninicità viene descritta attraverso una rete di narrazioni, distorsioni e reinvenzioni che, giocoforza, contribuiscono all’invenzione di una geografia dal duplice volto in cui la dimensione romantico-consumistica, tendenzialmente edulcorata e depurata da fratture e fragilità, convive con quella meno incoraggiante dell’internità, costruita sulle diseguaglianze e sulle minori opportunità che le popolazioni montane sperimentano rispetto a quelle cittadine. Questo libro offre una rilettura dell’ambiente appenninico, o meglio, un’indagine sul suo stato di montanità. Propone spunti concettuali per decostruire e ricostruire l’entità geografica alla luce della contemporaneità, affinché le venga riconosciuto quel diritto ad essere considerata montagna senza dover ricorrere necessariamente a un termine di paragone. Saggi di: Filippo Barbera, Augusto Ciuffetti, Maurizio Dematteis, Antonio De Rossi, Federico Di Cosmo, Piero Lacorazza, Giuseppe Lupo, Laura Mascino, Fabrizio Toppetti, Giuseppe Varavallo, Mauro Varotto, Piero Zanini.
Fuori dal coro. Cultura pop femminile e mutamento sociale nell'Italia del dopoguerra
Elizabeth Leake
Libro: Libro in brossura
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 188
«La cultura pop è stata un potente vettore di emancipazione delle donne: per ogni cantautore col marchio controllato e garantito di musica impegnata c’erano una Caterina Caselli, una Mina e una Patty Pravo che portavano avanti il lavoro pesante del cambiamento culturale dal basso». La rivoluzione femminista che ha attraversato la società italiana nella seconda metà del Novecento non è passata solo dalle piazze e dalle assemblee. La cultura pop – sostiene Elizabeth Leake – ha avuto un ruolo fondamentale nel generare il cambiamento: prodotti culturali considerati di puro intrattenimento, che non veicolavano messaggi dichiaratamente politici, grazie alla loro popolarità erano capaci di incidere sulle abitudini individuali perfino più di quanto non lo fossero operazioni culturali esplicitamente rivoluzionarie. Se nel dopoguerra Nilla Pizzi cantava ancora dal palco di Sanremo melodie nostalgiche e legate a modelli femminili tradizionali, nel giro di poco più di un decennio iniziò a scaldarsi la voce una generazione di cantanti che rivendicava per le donne un ruolo da protagoniste, nella vita privata e nella società. Un percorso di emancipazione non lineare, spesso fatto di paradigmi concorrenti che si contendevano lo stesso pubblico: da un lato la femminilità rassicurante di Gigliola Cinquetti, dall’altro l’esuberanza di Mina, l’adolescenza dirompente di Rita Pavone, o la sessualità ambigua di Patty Pravo e Ornella Vanoni. La cultura popolare rifletteva i cambiamenti in atto nella società, ma allo stesso tempo li promuoveva, rendendoli possibili. Era una forma di attivismo dal basso, che agiva sul piano del quotidiano e dell’informale, dando come assodati aspetti che la società ancora faticava ad accettare Nelle canzoni, nei film e nei libri venivano presentate come realtà l’esistenza del desiderio femminile, l’indipendenza delle donne e la necessità della parità dei diritti. In questo senso, il pop ha contribuito al riconoscimento delle donne come soggetti politici, dando forza e peso alle cause che venivano portate avanti, in forme diverse, dai collettivi femministi e dai gruppi di autocoscienza. Dalle canzonette agli schiamazzi degli Urlatori, dai musicarelli alle commedie all’italiana, dai libri di Dacia Maraini a Porci con le ali, Leake propone una storia inedita del femminismo italiano, che mostra come la cultura di massa possa essere politica, anche quando ne è inconsapevole.
L'antifascismo. Una tradizione generativa (1945-2025)
Andrea Rapini
Libro: Libro in brossura
editore: Donzelli
anno edizione: 2025
pagine: 256
«È possibile pensare un antifascismo che non sia solo un residuo nostalgico del passato, destinato ad ammutolirsi davanti alle grandi questioni del presente e all’orizzonte mentale delle giovani generazioni? L’antifascismo va inteso come una promessa di liberazione arricchitasi – in modo generativo – di sempre nuove sfaccettature, ma con un nocciolo invariante: allargare la democrazia, farla vivere nella vita reale delle persone, trasformare i rapporti di potere, parlare a chi sta ai margini». La Festa della Liberazione dal nazifascismo, di cui nel 2025 si celebrano gli ottant’anni, ha sempre diviso gli italiani poiché sancisce l’epilogo di una dittatura ventennale e di una lacerante guerra civile. I conflitti che costantemente l’accompagnano dimostrano la persistenza e la periodica riapertura di quelle ferite: noi ci sentiamo ancora eredi di quel passaggio storico e continuiamo a interrogarci su di esso. Ma cosa ne è oggi dell’antifascismo, nell’Italia con il Parlamento e il governo più a destra della storia repubblicana? Andrea Rapini prova a rispondere a questa domanda affrontando un viaggio nel passato alla ricerca del nucleo profondo che ha reso l’antifascismo vitale, capace di trasmettersi nel tempo, di incontrare nuove generazioni e nuove questioni politiche. Fin dai primi anni Quaranta, gli antifascisti compresero che per sconfiggere il fascismo occorreva contrapporre al regime di Mussolini un programma attivo di trasformazione della società, della politica e delle forme di vita. Il loro obiettivo, dunque, era generare una democrazia di massa che programmaticamente abbattesse non solo le ingiustizie e le disuguaglianze del presente, ma anche i nuovi volti dell’oppressione che si sarebbero presentati nel futuro. Questa tensione si rivela fondamentale ancora oggi. In un frangente epocale in cui l’ordine internazionale fondato dopo la sconfitta del nazifascismo sta andando in frantumi, la guerra torna minacciosa e la democrazia si sfibra di giorno in giorno, abbiamo bisogno di riscoprire quel nucleo vitale e di adattarlo alle sfide del mondo globale. Il libro mostra che la riappropriazione dell’eredità dell’antifascismo è già in corso, benché le istituzioni si ostinino a proclamarne la morte.