Medusa Edizioni
Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp
Maurizio Cecchetti
Libro: Libro in brossura
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 312
Duchamp ci ha "educati" al nonsense nell'arte visiva. Ogni sua opera è al tempo stesso rappresentazione della fine dell'arte come l'abbiamo conosciuta per secoli e uno "scherzo". Pensiamo a un orinatoio trasformato in opera d'arte o al graffio sul volto della Gioconda dove la "didascalia" di cinque lettere rimanda a una segreta e impensabile frenesia erotica della donna più sfuggente che la pittura ci abbia dato. Duchamp è l'emblema precoce di quello slittamento dell'arte dal confine strettamente estetico verso quello antropologico. Ma oggi vediamo che questa svolta rappresenta il maggiore problema dell'arte attuale, che ha perduto il suo pubblico tradizionale e le sue regole auree (diventando comunicazione). Quanto ha pesato Duchamp in questa evoluzione? Molto. E a renderlo ancora più presente oggi c'è la sua strategia fondata sulla reticenza e l'ambiguità. Che cosa si può fare quando si ha di fronte "qualcuno" o "qualcosa" cui non si riesce a cavare di bocca una parola, che si chiude orgogliosamente nel proprio solipsismo? Che fa di tutto per deviare verso strade senza uscita l'intelligenza di chi vuole capire che cosa ha da dirci? O si abbandona la partita oppure si cerca di far parlare i pochi indizi, anche mistificatori, che l'ermetico artefice dissemina per rendere ancor più impenetrabile la propria opera. Questo saggio accetta la sfida e adotta come metodo l'eccentricità del punto di vista che osserva il proprio oggetto di studio da punti periferici, ovvero da una certa distanza come se non volesse interferire troppo col mito che manipola sapientemente ogni risposta venga data all'enigmatica forma delle sue opere. Mettere "fuori servizio" Duchamp equivale all'epochè fenomenologica: è una temporalità sospesa che, oltre a essere tema della strategia di Duchamp, isola provvisoriamente l'oggetto per poterlo valutare con maggiore chiarezza nel contesto storico-culturale. Mettere "fuori servizio" Duchamp è come assecondare la sua volontà di asceta che tenta la fuga perché del mondo in cui vive prova disgusto: il contemptus mundi di chi aspira all'eternità è un tema che in Duchamp si manifesta con una freddezza (o secchezza, come avrebbe detto lui) che compensa nell'arte la soggezione agli appetiti sensuali cui Duchamp come uomo non si nega, ma poi sublima con "tecniche dell'inganno" che ne dissimulano la natura ibrida che cerca nel mito dell'androgino primordiale la via di fuga dalla carnalità. Come un antico gnostico o un santo del deserto.
Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp
Maurizio Cecchetti
Libro: Copertina morbida
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 310
Duchamp ci ha "educati" al nonsense nell'arte visiva. Ogni sua opera è al tempo stesso rappresentazione della fine dell'arte come l'abbiamo conosciuta per secoli e uno "scherzo". Pensiamo a un orinatoio trasformato in opera d'arte o al graffio sul volto della Gioconda dove la "didascalia" di cinque lettere rimanda a una segreta e impensabile frenesia erotica della donna più sfuggente che la pittura ci abbia dato. Duchamp è l'emblema precoce di quello slittamento dell'arte dal confine strettamente estetico verso quello antropologico. Ma oggi vediamo che questa svolta rappresenta il maggiore problema dell'arte attuale, che ha perduto il suo pubblico tradizionale e le sue regole auree (diventando comunicazione). Quanto ha pesato Duchamp in questa evoluzione? Molto. E a renderlo ancora più presente oggi c'è la sua strategia fondata sulla reticenza e l'ambiguità. Che cosa si può fare quando si ha di fronte "qualcuno" o "qualcosa" cui non si riesce a cavare di bocca una parola, che si chiude orgogliosamente nel proprio solipsismo? Che fa di tutto per deviare verso strade senza uscita l'intelligenza di chi vuole capire che cosa ha da dirci? O si abbandona la partita oppure si cerca di far parlare i pochi indizi, anche mistificatori, che l'ermetico artefice dissemina per rendere ancor più impenetrabile la propria opera. Questo saggio accetta la sfida e adotta come metodo l'eccentricità del punto di vista che osserva il proprio oggetto di studio da punti periferici, ovvero da una certa distanza come se non volesse interferire troppo col mito che manipola sapientemente ogni risposta venga data all'enigmatica forma delle sue opere. Mettere "fuori servizio" Duchamp equivale all'epochè fenomenologica: è una temporalità sospesa che, oltre a essere tema della strategia di Duchamp, isola provvisoriamente l'oggetto per poterlo valutare con maggiore chiarezza nel contesto storico-culturale. Mettere "fuori servizio" Duchamp è come assecondare la sua volontà di asceta che tenta la fuga perché del mondo in cui vive prova disgusto: il contemptus mundi di chi aspira all'eternità è un tema che in Duchamp si manifesta con una freddezza (o secchezza, come avrebbe detto lui) che compensa nell'arte la soggezione agli appetiti sensuali cui Duchamp come uomo non si nega, ma poi sublima con "tecniche dell'inganno" che ne dissimulano la natura ibrida che cerca nel mito dell'androgino primordiale la via di fuga dalla carnalità. Come un antico gnostico o un santo del deserto.
Saggio sul pensiero reazionario. A proposito di Joseph de Maistre
Emil M. Cioran
Libro: Copertina morbida
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 116
Fin dal titolo, "Saggio sul pensiero reazionario", questo libro affronta uno stile di pensiero sul quale è stato gettato troppo facilmente, e senza tanti complimenti, l'anatema politico-culturale. A rappresentarlo degnamente è convocato Joseph de Maistre (1753-1821), pensatore savoiardo campione di ogni reazione, controrivoluzionario professo e militante, e insieme lucido descrittore delle contraddizioni della Rivoluzione. Cioran ne esplora la logica e i risvolti teorico-politici, con lo sguardo di chi si sente lontano dalle sue prospettive ma nello stesso tempo ne riconosce la forza e l'attrattiva in un mondo nel quale le parti della Reazione e della Rivoluzione spesso si intrecciano e si rovesciano dando vita a una dialettica nei cui nodi inestricabili forse siamo ancora coinvolti e dai quali stentiamo a uscire. Come anche il dibattito sociale e politico dei nostri giorni è impegnato continuamente a dimostrare.
Antichi, moderni e primitivi. Alle radici della ribellione nell'arte
Ernst H. Gombrich
Libro: Copertina morbida
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 106
Tra i due testi di Ernst Gombrich raccolti in questo volume passano quasi vent'anni. Il primo, "The Debate on Primitivism in Ancient Rhetoric", risale al 1966. Il secondo, invece, è il testo di una lectio magistralis che il grande studioso tenne a Napoli nel 1984, sul "gusto dei primitivi". Al centro di entrambi è la riflessione sull'idea - che Gombrich dimostra essere ciclica nella storia dell'arte perché propria della storia del pensiero, mentre quella di "progresso" è relativamente recente - per cui le opere più antiche e meno sofisticate siano in qualche modo superiori moralmente ed esteticamente a quelle successive, molli e decadenti. Da qui l'esigenza di continue riforme (tipiche per esempio delle religioni e delle forme a esse collegate, da quelle liturgiche a quelle artistiche) che ritrovino la forza vitale delle origini. Una questione tutt'altro che "accademica" perché riguarda il nostro tempo più di quanto non si pensi. L'arte di oggi ha ancora il senso genuino, primitivo, delle grandi epoche di rinnovamento del linguaggio artistico oppure sta vivendo una "ciclica" fase di decadenza? La risposta si trova in queste pagine. Prefazione di Alessandro Beltrami.
Il volo delle rondini. Conversazioni con Julio Cortázar
Autori vari
Libro: Copertina morbida
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 123
Le interviste a grandi scrittori - avverte Luana Salvarani nell'Introduzione - obbediscono a una tacita convenzione: il lettore non saprà mai se quello che legge costituisce lo "sfondo", la radice biografica delle loro costruzioni letterarie, o se l'intervista a sua volta costituisca un'altra costruzione letteraria di diverso genere. Da qui il fascino del "Questionario di Proust", dove, giocando a rispondere a una serie di domandine salottiere, il perfido Marcel ci offre per un attimo l'illusione di avere qualche strumento in più per dipanare il labirinto della Recherche. Illusione pericolosa e che tuttavia costituisce il fascino del "gioco dell'intervista". Anche in queste interviste, come nel più celebre romanzo di Cortázar, Rayuela, il lettore è invitato implicitamente a prendersi le proprie responsabilità, a scegliere e gerarchizzare le preziose informazioni fornite, a capire cosa sia report, cosa appartenga al campo dell'automitologia e quando accade che l'autore entri in un proprio personaggio. Personaggi così vissuti che accade, in queste pagine, che l'autore sostenga «Oliveira pensa che», «rispondo anche a nome di questo mio personaggio». Una folla di alter ego in cui lo stesso Cortázar rifiuterebbe di identificare un vero sé. L'unicità dell'essere in ogni singola circostanza gli impedisce di tracciare un ritratto unitario dell'io "biografico", "vero". Che tuttavia in queste interviste a suo modo si svela, forse soprattutto attraverso due temi: la riflessione sulle strutture romanzesche e il rapporto con la politica.
In guerra con me stesso. Due conversazioni con Jacques Derrida
Libro: Copertina morbida
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 91
Due interviste, solo in apparenza tra loro lontane nel tempo. La prima del 1986, in tv, con Didier Cahen di "France-Culture"; l'altra, due mesi prima della sua morte, apparsa su "Le Monde" il 19 agosto 2004 con Jean Birnbaum. In realtà vicine per i temi discussi e lo spirito con cui il lavoro filosofico di Jacques Derrida viene affrontato per il pubblico vasto e indifferenziato della tv e del maggior quotidiano francese. Nella prima il congedo, lungo e articolato, dalla tradizione filosofica metafisica si intreccia con le precisazioni, molto chiare, sul modo di intendere la "decostruzione". Nella seconda, quando Derrida è in vista dell'ultimo vero congedo, quello dalla vita, un certo velo di malinconia sorregge la descrizione della fragilità e insieme della finezza di tutto il lavoro concettuale fino ad allora svolto. Emerge una visione della filosofia orgogliosa del proprio lascito e nello stesso tempo consapevole della precarietà con cui ogni tradizione, anche quella che apparentemente ne vorrebbe volentieri fare a meno, deve fare i conti, a partire dalla lingua stessa con cui cerca di esprimersi. Due testimonianze dell'intensità di un pensiero spesso frainteso.
Più del colera la solitudine. Conversazioni con García Márquez
Libro: Copertina morbida
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 123
Due conversazioni con lo scrittore latino-americano sulla sua opera letteraria alla vigilia del Premio Nobel che riceverà nel 1982. Il romanzo che lo identifica per il grande pubblico, "Cent'anni di solitudine", lo vincola anche a una responsabilità del successo ottenuto, che diventa in certi momenti persino "ingombrante" e lo spinge a dire: «Ne ho piene le tasche di questo Garcia Màrquez». Da queste interviste emergono gli intrecci strettissimi con l'esperienza giornalistica come reporter in molte parti del mondo, le influenze sulla sua scrittura - dalla giovanile infatuazione per La metamorfosi di Kafka alla scoperta di Faulkner -, ma anche la sua visione politica, legata al socialismo, con la difesa di Fidel Castro e la condanna della distorsione dell'ideale di uguaglianza ed emancipazione dell'uomo da parte dell'Unione Sovietica. Tutto comincia dalla realtà, confessa Garcia Màrquez, ma è l'immaginazione che rende credibile ciò che può anche sembrare se non surreale certamente un frutto del sogno. Quel volo onirico è un balsamo al senso della propria solitudine che lo spinge a raccontare. Lo scrittore confessa che la sua ricerca consiste nel ritrovare quella verità "orale" che avevano i racconti magici della nonna, e afferma che a un autore tutto è permesso a patto che il suo racconto venga creduto da chi lo legge come una realtà possibile. In queste conversazioni c'è tutto il distillato poetico della scommessa narrativa del grande scrittore. Con un saggio di Harold Bloom.
La più bella compagnia
Kathleen Jamie
Libro: Libro in brossura
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 131
The Bonniest Companie, spelling scozzese, è la settima silloge di Kathleen Jamie, scritta e sostenuta dalla "tremendous energy" - parole sue - della campagna per l'indipendenza della Scozia in vista del referendum del settembre 2014, che però sancirà la vittoria del "no". Attivista e fervente sostenitrice del "sì", Kathleen Jamie decise di esprimere quell'energia scrivendo, se possibile, una poesia la settimana. La sfida della scrittura fu vinta, la sconfitta del referendum cocente, ma l'energia intatta. Così dice Jamie, infatti, nella poesia "23/9/14" scritta qualche giorno dopo il risultato: «Dunque eccoci qua, / abbattuti e sfiniti / ammantati di speranze in frantumi /... È martedì. Di nuovo in piedi. / Oggi si ricomincia». I temi della sua poesia, in questa come in precedenti raccolte, sono per lo più quelli della natura che la circonda, della Scozia selvaggia e domestica, quella esplorata in lunghe escursioni e quella più vicina a casa, con la sua flora e la sua fauna, tanti fiori e alberi, merli, sterne, falchi (Jamie è esperta ornitologa), cervi e soprattutto cerve. Ma non solo. Ci sono anche liriche più intime, temi come la maternità, la nascita, l'amore, ricordi d'infanzia. Una continua interazione tra mondo naturale ed essere umano, uno stupore e una costante conversazione con la natura animano e illuminano queste poesie. Freschezza e immediatezza, vitalità ed energia, profondità di pensiero, sorprendenti metafore, ricchezza lessicale. Tutto ciò viene esaltato dall'uso della parlata scozzese (Scots). Infatti Jamie scrive in standard English ma con termini scozzesi qua e là, per ottenere i più diversi effetti speciali, a volte di vigore, energia, vitalità, oppure di familiarità, tenerezza, intimità, a volte ancora di affettuoso umorismo, di ironica simpatia.
Eutanasia e suicidio. Liberi di morire?
Robert William Higgins, Karl Löwith, Ersilio Tonini
Libro: Copertina morbida
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 112
"Scandagliando i modi con i quali viene impiegata la possibilità di protrarre la vita in situazioni prima non immaginabili, soprattutto attraverso le cure palliative, il saggio di Higgins descrive il comparire sulla scena antropologica occidentale della figura del morente. La ricchezza di sfumature antropologiche e di dilemmi morali, così introdotti sembra cancellata dall'imporsi di una sola autorità, di un solo parere legittimo al quale il corpo del paziente, nella sua totalità, deve essere reso disponibile: quello del complesso tecno-medico-legale. È in questa prospettiva che trovano la loro giustificazione le proposte relative a una presa in carico, legale e morale, da parte del soggetto delle condizioni nelle quali si potrebbe trovare con la comparsa di patologie e malattie sulle quali l'autorità tecno-medica avrebbe da esercitarsi oltre i termini consentiti dal paziente stesso. È quindi tra lo Scilla della moltiplicazione di potenza fornita alla medicina dalla tecnologia e il Cariddi della fragilità dell'uomo singolo che si pongono le soluzioni contraddittorie della modernità. Da un lato, è infatti parte attiva nella costruzione di un futuro tecnico dai risultati impensabili e dall'altro, si trova nella condizione di sostenere in virtù di questi stessi risultati la spinta a sottrarsi con la morte a ciò che ancora non è compiuto. Il rischio è che, in entrambi i casi, a perire sia la stessa natura umana, almeno così come ne abbiamo avuto esperienza finora. Ma la trama del discorso moderno sul suicidio e l'eutanasia trova piena espressione nelle pagine di Löwith. Il suicidio ha smesso, almeno nell'Occidente che una volta si considerava cristiano, di essere colpito da anatema ed espulso dal riconoscimento sociale e sacramentale che si deve ai morti. La vita non è più di Dio o, peggio, del signore feudale, la vita è disponibile alla libera scelta dell'individuo che può decidere come e quando terminarla. Il suicidio moderno, almeno quello occidentale - il discorso su quello orientale è molto più articolato e complesso - appare come una semplice estensione dei diritti e delle prerogative che l'individuo occidentale moderno rivendica a se stesso." (dall'introduzione di Riccardo De Benedetti)
L'ultima leggenda di Caino
Miguel de Unamuno
Libro: Copertina morbida
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 131
«Unamuno plasma come argilla la storia di Caino e Abele - scrive Alessandro Rivali nella Prefazione -, mischiando i loro lineamenti e interrogandosi sulle zone lasciate in ombra dalla scarna e così potente narrazione biblica. Chi era davvero Abele? Chi Caino? Lo scrittore spagnolo indaga il tarlo che spolpò le esistenze dei due fratelli, che chiuse anzitempo gli occhi all'uno, che marchiò la vita dell'altro, costretto a un'esistenza di deserti e solitudini: sempre in fuga, bruciato dall'esilio, senza la possibilità di relazioni autentiche. I fratelli divisi: un tarlo che ha interrogato classici vicini e lontani, da Eteocle e Polinice fino al partigiano Kyra e al suo fratello maggiore, ufficiale fascista, raccontati da Beppe Fenoglio nell'epopea del Partigiano Johnny. Lo sguardo di Unamuno è di ossidiana, nero e lucente. Vuole comprendere il male, l'origine della discordia e, quindi, la natura dell'invidia. Ecco allora rinascere il dramma dei due amici fraterni, Abele Sànchez e Joaquin Monegro, in un'ipotetica Spagna di primo Novecento. Abele Sànchez è l'"eletto". Il primo della classe, distante quanto antipatico nella sua perfezione, lontano dal pastore in qualche modo zuccheroso del nostro immaginario. Abele è un pittore di talento. È "ambizioso di fama, di gloria, di notorietà". Crea personaggi così intensi che sembrano veri. Come nell'antichità l'uva dipinta da Zeusi che ingannava gli uccelli che scendevano a lacerare le sue tele. Con la sua arte, Abele sembra capace di risuscitare i morti, di farli uscire dall'intelaiatura delle cornici. Abele è bello, ma non buono. Soffia la vita nei quadri, ma non ha specchi per esaminare la propria anima. È un narciso senza rimedio. Gli altri uomini per lui sono comparse sbiadite, scalini da superare. Le donne, poi, trofei da collezione. Almeno fino all'incontro con la bellissima e sfuggente Elena, che lo porterà a un tragico lento destino...».
Kafka umorista
Guido Crespi
Libro: Copertina morbida
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 138
L'analisi della comicità in Kafka di Guido Crespi ha una carica innovativa rispetto all'interpretazione che di Kafka vede solamente l'artefice di un'opera che contestava dall'interno le ragioni che rendono possibile il totalitarismo. È evidente, come scrisse Kundera nei "Testamenti traditi" che lo scrittore, lungi dall'essere alienato dal suo riso, in realtà "si diverte per noi" mentre inscena le sue storie condendole con crudeltà e sadismo, tanto più notevoli perché serviti freddi con una prosa al tempo stesso allusiva e trasparente (in apparenza, ma sempre con la doppia camera di compensazione del "simbolo nascosto"). David Foster Wallace nel 2005 scrisse che "la comicità di Kafka dipende da una sorta di letterarizzazione radicale di verità solitamente trattate come metafore" dispiacendosi di non essere capace di far comprendere ai propri studenti "che Kafka è comico". Il maggior studioso contemporaneo dello scrittore boemo, Reiner Stach, si è voluto concedere alla fine del monumentale lavoro biografico durato circa vent'anni, un libro propriamente "kafkiano", ovvero composto con "99 reperti" che ci offrono tutti insieme i tratti somatici dell'Uomo-Metamorfosi. Eccone alcuni: "Kafka bara all'esame di maturità", "Kafka s'infuria", "Kafka vorrebbe essere come Voltaire", "Kafka e Brod perdono al gioco i soldi della cassa comune per il viaggio". Il ritratto che ne esce, dove si mettono a nudo i tic di un uomo apparentemente come altri, ma che delle sue ossessioni - compresa quella sessuale, su cui il comico di Kafka si sbizzarrisce non poco (la sua Brunelda era rimasta nel cuore di Fellini, anche se non riuscì a farci il film che avrebbe desiderato, all'incrocio fra la Gradisca e la Grosse Margot) - ha saputo darci il succo più puro e per questo anche il più pericoloso, è a tutti gli effetti una maschera da Commedia dell'arte e non è da escludere che la figura longilinea di Kafka, i suoi tratti minuti e appuntiti del volto, possa trasformarsi nel burattino del ventriloquo, in perfetto abito di gala, che apre e chiude la sua bocca per pronunciare battute franche e crudeli a cui si dà ascolto come un divertimento ma che arrivano a toccare i nostri più nascosti orgogli. Come il saggio di Crespi dimostra. Prefazione di Alessandro Paci.
Lussuria, invidia, gola. Tre divertissement sul peccato
Max Jacob, Pierre Mac Orlan, André Salmon
Libro: Copertina morbida
editore: Medusa Edizioni
anno edizione: 2018
pagine: 119
«La Parigi anni Venti - scrive Laura Madella nella prefazione a questi tre scritti sui "peccati capitali" - ha peccati per tutti, borghesi e bohémiens, ma non tutti i peccati sono uguali e non tutti gli uomini sono uguali davanti al peccato. Mac Orlan, Salmon e Jacob questo lo vedono bene, assisi a scrivere nella posizione privilegiata di un giudice di sedia, solo meno esposti. Perché bohémien non si nasce se non per inclinazione, e poveri invece sempre senza; e una volta raggiunta la notorietà il bohémien-intellettuale entra nella cerchia delle conoscenze più o meno occasionali di qualche potenziale danaroso sponsor, di varia estrazione, non esclusa la borghesia (purché sia alta); lì uniforma il necessario, dress code, galateo e conversazione, ma l'acume critico rimane ben desto - in qualche misura serve anche a preservargli una distinzione di personalità, giacché raramente il danaroso sponsor se lo coltiva per avere un doppione di se stesso. (...) I tre peccati di questi racconti insegnano soprattutto questo al lettore contemporaneo: un oggetto, sia pure di sommo pregio, sia pure made in Italy, non può essere in quanto tale fonte di piacere o di peccato, di invidia o di gola. Tutto sta in una rete di storie e di simboli che gli si costruisce attorno, e una civiltà che tende pericolosamente a percepirsi senza storia sarà ben presto incapace persino di dannarsi cercando la bellezza».